27.9.17

Il muso nel fango e gli occhi che brillano



Questo non è un post sui libri che leggo. Questo è un post sui fatti miei. 
Per una decina di anni ho creduto di aver allevato un perfetto baskettaro, sia moralmente che fisicamente. Fisicamente non per merito mio, certo, ma Andrea è alto e ben piazzato. Moralmente, non per merito completamente mio ma ci ho provato. 
Perchè ho provato a coltivare un baskettaro? 
Perchè a pallacanestro non ci si sporca di erba. 
Una motivazione un po' debole, ma provate a lavare i pantaloni lerci di erba e ne riparliamo. 

Insomma, credevo di essermi risparmiata il supplizio degli allenamenti en plein air e tutto quel che ne consegue, quando in un lunedì di settembre mi sono sentita chiedere: "mamma, posso fare gli allenamenti prova di rubgy?"

Rugby. Uno sport che vanta una quantità di laureati superiore alla media tra i suoi giocatori (me l'ha detto un amico, nonchè zio a distanza per vocazione), uno sport che fa del fair play la sua bandiera, uno sport che (cito da wikipedia) è un gioco che favorisce socializzazione e integrazione: possono giocare in squadre miste sia bambini che bambine.

Dopo il primo allenamento di prova mi è stata chiara subito una cosa: addio al calduccio rassicurante delle partite nei palazzetti.

Ma perchè? cos'ha il basket che non ti piace più, figlio mio, cosa?
Cosa ci sarà di bello nel tirare per le gambe uno fino a farlo cadere col muso sul fango, nell'avere un livido sulla coscia, nel tenere in bocca un paradenti che ti fa sembrare un papero, nel correre nella foschia maledetta che c'è nelle nostre pianure, figlio mio, cosa?
E niente, non è spiegabile. O meglio: spiegare non servirebbe a niente. 

Mi siedo al tavolo del bar della squadra, ordino un caffè alla signora che mi risponde con un sorriso vero e mi chiede se lo voglio corretto grappa. Sorseggio il mio macchiato latte, prendo il libro del momento e inizio a leggere. Mi si siede accanto una coppia di anziani: "Disturbiamo?" mi guardo attorno: è pieno di posti vuoti ma non mi viene da dirlo. "Non disturbate, tutt'altro". 
Chiacchieriamo di mio figlio e di loro nipote, finchè non si siede con noi una mamma che devia l'argomento sulla carenza cronica di lavori per laureati nella nostra zona e su quanto puzzano i ragazzini all'età dei nostri.Ordiniamo un altro caffè, in quattro questa volta. 
Fotografo il libro per la mia pagina instagram, ma non leggo più.

Mio figlio finisce l'allenamento che ha gli occhi brillanti di felicità. Vuole continuare.
Sono circondata da gente che chiacchiera e beve caffè e birra come se stessimo a una festa casuale. Stiamo tutti bene, non pare nemmeno che siamo qui per i marmocchi.

"Voglio continuare, mamma!" Beh, anch'io.

8.9.17

I PADRONI DELLA NOTTE

"E' come se ci fosse una bomba inesplosa che ticchetta piano nel suo cervello: ci sono migliaia di possibilità che l'aspettano lì fuori, nessuna che potrà realizzare."




Negli anni Novanta sono stata una appassionata lettrice di Trainspotting et similia: ho letto quasi tutto quello che potevo leggere di Irvine Welsh. A distanza di una ventina di anni mi sono imbattuta in un libro del 1975 che ha tutte le ragioni per essere il "padre" del genere, almeno per la Gran Bretagna industriale e operaia.
Il libro è Padroni della notte, dal quale è tratto l'omonimo film cult. E' ambientato in una cittadina del nord dell'Inghilterra, i protagonisti, che l'autore dice essere una sintesi di fantasia e realtà di persone che ha intervistato nei pub, sono ragazzi problematici: non sanno tenere un lavoro, non vogliono lavorare perchè lavorare, si diceva in quegli stessi anni, stanca. Il loro ambiente è il pub dove si alcolizzano, la strada dove vagano nella nebbia e nel buio della notte, gli stadi. Quando hanno l'amore non sanno che farsene, l'unica cosa che riesce a dar loro un guizzo di vitalità è la violenza: da sfogare sugli immigrati, sui tifosi della squadra avversaria, su chi è ricco, su chi li guarda in faccia, per qualunque pretesto insomma.

Un libro mai inutilmente violento però, dove le aggressioni vengono raccontate senza la morbosità che ho trovato a volte nei romanzi di Welsh, per tornare a lui. Questo è un aspetto che mi è piaciuto; non c'è morobosità nè giudizio morale, l'autore non difende e non accusa gli autori delle violenze indipendentemente dal fatto che si tratti di giovani perdigiorno o di poliziotti.

Le donne sono madri sole, sia che vivano con un marito sia che siano single: hanno amanti, figli, un lavoro, ma l'idea che ne ho ricavato è quella di una profonda solitudine e di un'emancipazione zoppicante. Gli uomini si uniscono nel branco, riescono a trovare un terreno comune almeno nella violenza. Le donne gravitano attorno agli uomini ma sostanzialmente sono un contorno: un oggetto sessuale, qualcuno che prepara la cena, che presta soldi. 

Un aspetto interessante è che ne I padroni della notte si parla di lavoro. E' con la questione di genere una tematica che mi sta molto a cuore, ho apprezzato come viene trattata qui. Si parla di operai, di magazzinieri, di commesse, di poliziotti. Lavori ordinari, che implicano fatica fisica e una retribuzione non eccezionale, che danno quanto basta per tirare avanti e che spesso non danno alcuna soddisfazione. Lavorare bisogna, ma ci vuole forza per fare tutto il giorno qualcosa di faticoso e demotivante quando si possono raccimolare soldi uscendo dalla legalità, con la droga o la violenza, in una società il cui modello è quello del vincente che vive felice senza apparente sforzo.

Il giorno è per la gente che sta nelle fabbriche, per quelli che scelgono una vita onesta, la notte ha le sue regole e i suoi padroni, del tutto diversi, non sempre vincenti, se mai lo sono davvero.


I padroni della notte
di Trevor Hoyle
trad. G. Zeuli
Dalai editore, 2008
anno di pubblicazione: 1975







 (Questo post partecipa al Venerdì del Libro di HomeMadeMamma)

1.9.17

CENTO QUARTINE E ALTRE STORIE D'AMORE

"Tu che ami soltanto la parola, non temere l'amore corrisposto"


Non sono una grande appassionata di letteratura erotica, ma le poesie delle Valduga fanno un'eccezione. Ne avevo lette qua e là ma non mi ero mai soffermata ad assaporarle tutte, e devo ammettere che ne è valsa la pena.
L'erotismo scritto dalle donne sa essere molto potente e piacevole, specialmente se come in questo caso non sfocia nell'esibizionismo fine a se stesso o nella volgarità.

La Valduga non è volgare, ma è terribilmente femminile e sensuale. Racconta l'amore dei sensi, lo struggimento, il piacere ma anche la solitudine, l'assenza, la nostalgia.

Alcuni suoi versi sono di una bellezza tale da essere musica stupenda, sono i versi che tutte noi vorremmo dedicare all'amante lontano, all'uomo che desideriamo, a quello che ci rende felici a letto.
Il sesso è un gioco, a volte doloroso, altre noioso, se si è fortunati un gioco capace di dare la gioia più grande e in queste quartine nessun aspetto manca, e ci ipnotizza, e ci svela qualcosa di noi.


"C'è un solo incontro e non c'è un solo addio / e devo sempre stare sul chi vive / nel grande cimitero dei miei io / vivo una vita tutta recidive."



Consiglio questo libro a chi ama l'amore sotto ogni sua forma, che sia dolore o piacere, o entrambe le cose ma mescolate con le dosi migliori.



Cento Quartine e altre storie d'amore
Patrizia Valduga
Einaudi editore, 1997



 (Questo post partecipa al Venerdì del Libro di HomeMadeMamma)

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